La critica gastronomica, spesso, si ferma al palato, alla bocca. Il piacere si arresta al sapore sulla lingua, sul palato, come se l’uomo che mangia fosse solo una grande bocca, che mastica, produce saliva e inghiotte. Ma cosa succede a quel cibo, a quei sapori quando scivolano giù per l’esofago, sostano nello stomaco, si lasciano assorbire, trasformati, nell’intestino? Il racconto del cibo ha paura del piacere del cibo. Il gusto non si esaurisce nella bocca, ma si allarga potente, appagante nell’uomo fatto di un corpo e di una mente.
In una cultura spaventata dalla forza del desiderio e del piacere il cibo è stato censurato, avvilito, mortificato. Quando si parla di vino si parla di polialcoli, tannini, acidi, intensità, persistenza, ma si omette la dimensione dionisiaca, l’effetto corporeo, quel benessere che abbraccia il corpo e la mente. L’ebbrezza è una porta improvvisa che si apre su una diversa sensibilità, amplificando la percezione di sé nel mondo, di sé stessi e dell’altro che si ha vicino.
Si descrivono vini e ricette ma si dimentica l’uomo che beve e che mangia. Il piacere di mangiare porta a vivere il piacere del qui e ora, il piacere di un presente che si è educato sui piaceri del passato e che si allunga sui piaceri del futuro.
Si descrive senza raccontare l’esperienza vissuta. Forse è il pudore di mostrare agli altri il proprio godimento che rende così frigida la riflessione sul cibo. Sul goloso pende la condanna eterna di vizioso. La ricerca dell’eterno svincolato dalla terrena pesantezza del corpo ha svilito il valore di questa vita e di questo corpo. Il piacere sano può realizzarsi solo nel rispetto dell’altro.
1 commento:
Mangio le tue parole che è un piacere.
Posta un commento